BMCR 2006.02.51

Studia Hellenistica Gaditana I: Teócrito, Arato, Argonáuticas órficas

, Studia hellenistica gaditana. Cádiz: Universidad de Cádiz, Servicio de Publicaciones, 2003-. volumes ; 24 cm. ISBN 9788496274211. €12,00.

[Authors and titles are listed at the end of the review.]

Il volume, concepito come il primo di una serie, raccoglie quattro ampi contributi ad opera di altrettanti studiosi afferenti a un gruppo di ricerca sulla letteratura greca ellenistica e imperiale coordinato da José Guillermo Montes Cala presso l’Università di Cádiz. Il comune denominatore tra essi, oltre alla medesima origine accademica, è una sostanziale omogeneità metodologica: al di là dei diversi campi di indagine — storico-letterario, testuale, lessicale, metrico — e prescindendo dai possibili dissensi che il lettore potrà avere nei confronti di una o di un’altra proposta interpretativa, quest’opera si apprezza come prodotto di una filologia ben collaudata (si potrebbe dire ‘tradizionale’, ove a ciò non si dia valore negativo), attenta ai fatti concreti ed estranea alle più caduche tra le mode che circolano nei nostri studi.

Il primo contributo è un denso lavoro di José Guillermo Montes Cala dedicato a La paradoja teocritea. Unidad y diversidad en los Idilios de Teócrito. Il punto di partenza dello studioso è una riconsiderazione della multiforme produzione teocritea alla luce della moderna distinzione tra genere, come categoria retrospettiva e classificatoria, e genericità, come funzione testuale inerente alla genesi del prodotto letterario. Montes Cala segue — e a mio parere ha perfettamente ragione — la corrente esegetica che nell’ultimo decennio ha sottolineato la necessità di ripensare il vecchio concetto di Kreuzung der Gattungen e di interpretare almeno una parte rilevante della poesia ellenistica come recupero e sviluppo di possibilità già presenti nella tradizione letteraria ma non adeguatamente sfruttate.1 In questa prospettiva lo studioso si propone di indagare la tensione tra unità e diversità nella poesia teocritea prendendo in esame tre categorie: la varietà tematica, quella metrica e quella dialettale. Per la prima di esse, Montes Cala sottolinea l’importanza di Theoc. 16.51-57 come manifesto di una concezione non ristretta dell’epos: il poeta trovava nella tradizione epica anche temi non prettamente eroici, non solo Ettore e Odisseo ma anche il porcaro Eumeo e il bovaro Filezio. Questo è sicuramente vero; va da sé che Teocrito si spinge ben oltre lo spunto fornitogli dai poemi omerici e vi intreccia influssi di altri generi letterari come la commedia e il mimo, ma lo studioso ha ragione a sottolineare che sarebbe riduttivo interpretare la poesia bucolica come una scelta ‘anti-epica’.

La varietà metrica e quella dialettale sono analizzate dal punto di vista non tanto della classificazione dei carmi teocritei (sulla cui ripartizione in gruppi ben definiti lo studioso si mostra piuttosto scettico) quanto dei differenti registri identificabili anche all’interno di un singolo idillio. Per quanto riguarda la metrica, Montes Cala dichiara di non condividere le conclusioni di quegli studiosi che individuano una voluta differenziazione tra l’esametro dei carmi bucolici, o almeno di quelli non parodici, e l’esametro dei più omerizzanti carmi epico-encomiastici: a suo parere, le differenze nella inner metric (cesure, pause e ponti) sono una conseguenza delle peculiarità fonosintattiche dei diversi dialetti e forse di una evoluzione della tecnica teocritea dalla fase pre-alessandrina a quella più matura; egli osserva anche come non vi sia un’analoga divergenza a livello di outer metric (distribuzione di dattili e spondei). Si dovrà tuttavia notare che è nella inner metric che l’esametro degli Alessandrini sviluppa le sue innovazioni più significative, e che quindi è primariamente essa, non l’altra, a qualificare la versificazione di un poeta come moderna o arcaizzante. Inoltre, anche tra gli idilli epico-encomiastici prevale la patina linguistica dorizzante; e quanto alla cronologia, alcuni di essi risalgono sicuramente al periodo alessandrino dell’attività di Teocrito. È arduo, insomma, vedere nelle differenze metriche altro che una ben precisa scelta di poetica.2 Molto più interessante la pars construens di questa sezione, che offre un’analisi dettagliata dell’id. 1 (pp. 50-63) con valide considerazioni sull’uso dei refrains e sulla ‘strofizzazione’ dell’esametro: queste problematiche pertengono forse più alla stilistica che alla metrica in senso stretto, ma danno in ogni caso un proficuo contributo alla comprensione della strategia compositiva di Teocrito e del suo rapporto con i mezzi espressivi tradizionali. Nella stessa direzione si muove il paragrafo dedicato alla varietà dialettale, incentrato soprattutto sulla coesistenza tra dorismi ed epicismi all’interno di un medesimo idillio: argomento quantomai delicato, che lo studioso affronta con sano equilibrio metodologico. Le sue considerazioni sono sempre sensate, spesso condivisibili; le questioni testuali sono discusse in ottica moderatamente conservatrice, ma senza ignorare quanto sia infida in questo campo la tradizione manoscritta. Anche qui l’id. 1 è fatto oggetto di un’analisi ampia ed accurata. Il lavoro di Montes Cala costituirà un’utile acquisizione per gli studi sui livelli di stile e sul rapporto tra unità e varietà in Teocrito e più in generale nella poesia del III secolo.

In La frontera entre géneros: el Idilio XXI de Teócrito y la epístola poética, Rafael Jesús Gallé Cejudo propone un confronto tra questo idillio — sulla cui attribuzione egli si mantiene possibilista, pur propendendo manifestamente per la tesi dell’autentica paternità teocritea3 — e la produzione epistolografica della Seconda Sofistica (Eliano, Alcifrone etc.). Lo studioso opportunamente chiarisce (pp. 170-172) che il suo scopo non è retrodatare all’età ellenistica l’origine delle epistulae rusticae e piscatoriae (il che sarebbe in teoria non impossibile, ma resta del tutto indimostrabile), bensì individuare vari elementi che suggerirebbero di interpretare il carme come una sorta di epistola mimica, non diversamente dagli idd. 6 e 11 (mimici) e 13 (narrativo) indirizzati da Teocrito ad Arato e a Nicia. L’ipotesi è stimolante; ovviamente, il fulcro del problema è cosa esattamente intendiamo per ‘epistola’ ed ‘epistolare’. Che nell’antichità l’identità epistolare fosse legata più alla funzione di uno scritto che alle sue caratteristiche formali, come sottolinea Gallé Cejudo (p. 171), può esser vero; e tuttavia se volessimo procedere sistematicamente su questa strada rischieremmo di qualificare come ‘epistola’ qualsiasi testo letterario che presenti allocuzioni a un destinatario, a partire quantomeno da Archil. fr. 168 West. Le apostrofi teocritee e pseudo-teocritee a Nicia, Arato e Diofanto devono considerarsi esemplate sullo stile epistolare, o piuttosto sulle movenze incipitarie della lirica arcaica? Di fronte a una questione tutto sommato insolubile come questa, mi sento di condividere la prudenza di chi, come Patricia Rosenmeyer,4 preferisce non includere carmi di tal genere tra le lettere propriamente dette. Ciò ovviamente non impedisce di pensare che anche le forme espressive dell’uso epistolare possano avere esercitato un certo influsso su questi idilli.5

Dopo una breve ma utile rassegna su “El pescador como personaje literario” (pp. 130-135), la maggior parte del saggio (pp. 135-169) è dedicata all’analisi dettagliata, sia tematica sia testuale, di questo idillio. La trattazione di Gallé Cejudo è ampia e ben documentata,6 e alcune delle sue proposte sono sicuramente convincenti: così la difesa del testo tramandato al v. 53 (p. 159), sulla scia di Giangrande e di Gallavotti,7 oppure l’interpretazione di φίλος πόνος del v. 20 come “su propio medio de vida” (pp. 142 ss.),8 che sceglie il meglio degli argomenti di Gow e di Giangrande. Altrove, però, l’influenza dello stesso Giangrande9 ha avuto effetti molto meno benefici. La conservazione della lezione dei codici ai vv. 17-18, con la sola correzione πενίᾳ (Giangrande), può essere accettabile, benché l’ ordo verborum non sia dei più eleganti e il polisemico τρυφερόν suoni un po’ ambiguo nel misero mondo dei pescatori; ma ai vv. 15-16 il testo tradito è inadatto per il senso e zoppicante nella sintassi.10 Il v. 25 è oscuro, ma quand’anche sia difendibile nella forma in cui è tramandato, νύκτες dovrà avere un valore generalizzante11 e non potrà significare ‘questa presente notte’ (sappiamo bene quanto sia diffuso il plurale poetico, ma attribuirgli una funzione sostanzialmente deittica è un altro paio di maniche). Al v. 48 τὼ χέρε risulta ingiustificabile ove non ci si risolva quantomeno ad emendare al nominativo i participi adiacenti. Particolarmente criticabile, infine, l’ipotesi di Giangrande di conservare al v. 21 ᾠδάν come ‘occupational song’ (vd. pp. 127-130 e 145-146 del nostro volume): nello scambio di battute tra i due pescatori non c’è assolutamente nulla, né indizi contestuali né elementi stilistici né responsioni strutturali, che possa far pensare a un canto amebeo. Dialogico è una cosa, amebeo un’altra. Al v. 32 Gallé Cejudo accoglie la proposta di Edmonds, che tuttavia mi pare poco risolutiva e nettamente inferiore a quella di Wilamowitz (recepita da Gow); invece per i vv. 65-66 ha ragione a conservare il testo dei codici, ma lo interpreta in un modo assai eterodosso. Se anche l’idillio non è opera di Teocrito, il suo autore si rivela un poeta di buon livello, cui difficilmente si potranno attribuire incoerenze e goffaggini. L’impegno esegetico di Gallé Cejudo, per molti aspetti apprezzabile, avrebbe tratto non poco vantaggio da una minore aderenza all’iperconservatorismo di certi suoi predecessori.

A Hechos prosódicos y final de palabra en el hexámetro de Arato sono dedicate le pagine di Tomás Silva Sánchez, studioso già noto ed apprezzato per le sue ricerche in campo metrico.12 I fenomeni presi in considerazione sono l’elisione, lo iato, la correptio epica e la correptio Attica, dal punto di vista sia delle loro caratteristiche intrinseche, sia del loro significato per l’analisi della fine di parola nell’esametro arateo. Peccato che lo spoglio si basi ancora sulla prima edizione di Martin (1956), invece che su quella più recente di Kidd (1997, solo citata brevemente a p. 190 n. 7) o sulla seconda dello stesso Martin (1998, mai menzionata da Silva):13 ma questo comporta solo rettifiche marginali, che non modificheranno sensibilmente il quadro d’insieme.14 Silva offre un’abbondante messe di dati di prima mano, e già questo è di grande utilità in un campo ove spesso si è ancora costretti a servirsi di materiale incompleto o tralatizio.15 Ma sarebbe errato pensare che si tratti solo di un regesto, per quanto esauriente: Silva discute i dati in modo intelligente ed equilibrato, interpreta i fenomeni con vivo senso storico (distinguendo nella versificazione di Arato i tratti arcaizzanti da quelli più ‘moderni’) e mostra una lodevole attenzione, nell’analisi sia della prosodia sia della inner metric, per lo spinoso problema delle appositive. Il quadro da lui tracciato risulta convincente tanto nelle singole parti quanto nella visione d’insieme. Solo poche osservazioni marginali qui di seguito. Per Arat. 1 οὐδέποτ’ (p. 193) è arduo stabilire una priorità cronologica tra il poema arateo e l’ Inno ad Artemide di Callimaco: in ogni caso, l’elisione non mi sembra particolarmente anomala ove la si consideri come un mero derivato di quella, normalissima, del semplice ποτε. Tra i versi aratei che presentano elisione in concomitanza con una violazione della norma di Naeke (p. 201), noterei che 262 è giustificato dal suo carattere fortemente esiodizzante (vd. Kidd e Martin, ad loc.); lo stesso vale per l’assenza di cesura centrale al v. 263 (p. 234). Al v. 753, lo iato φαεινοῦ ἠελίοιο (p. 210) potrebbe forse essere conseguenza di un riecheggiamento di Il. 23.561 φαεινοῦ κασσιτέροιο; per quanto riguarda gli iati in Arato, sottolineerei la peculiarità del v. 962, che ne presenta ben tre (per un effetto espressivo, come ipotizza Kidd ad loc.?). Tra le infrazioni aratee alla I norma di Meyer (p. 238 n. 139) non annovererei 242 e forse nemmeno 420: è invece probabile che vi si debbano includere 60616 e 824. Alle infrazioni alla norma di Giseke, secondo la formulazione abituale che concerne un secondo piede dattilico (p. 238 n. 140), si aggiungano 828, 944 e 986, tutti e tre con parola metrica. Ricca e aggiornata la bibliografia, in cui poco di veramente rilevante si potrebbe integrare.17 In definitiva, Silva offre alla nostra conoscenza di prosodia e metrica dei poeti alessandrini un contributo di primaria importanza, da cui gli specialisti d’ora in avanti difficilmente potranno prescindere.

Chiude il volume il contributo di Manuel Sánchez Ortiz de Landaluce su Orfeo en las Argonáuticas órficas: su música y su voz, dedicato alla terminologia con cui l’anonimo autore di questo poema individua le varie attività enunciative del suo protagonista. Lo studioso analizza in dettaglio il proemio (vv. 1-55), interessante soprattutto per il catalogo delle opere della tradizione orfica, e le scelte lessicali del poeta relativamente ai campi semantici dell’elocuzione e del canto: non fa meraviglia che il primo di essi occupi uno spazio tutto sommato maggiore del secondo, in un’epoca in cui la figura di Orfeo era associata al potere della parola-rivelazione più che a quello della musica. Le osservazioni dello studioso sono prudenti ed equilibrate,18 e le sue conclusioni mi sembrano condivisibili: le imprecisioni nella terminologia musicale del nostro poeta potranno in parte dipendere da una sua ignoranza in materia, ma in parte sicuramente sono un retaggio del patrimonio letterario cui egli attingeva — soprattutto della tradizione epica, per lo più aliena da tecnicismi nella descrizione degli strumenti a corda.

Il libro è realizzato con cura; pochissimi gli errori di stampa. C’è motivo di auspicare che la serie degli Studia Hellenistica Gaditana, iniziata sotto una buona stella, prosegua felicemente negli anni a venire il suo cammino attraverso la poesia greca postclassica.

Contents

José Guillermo Montes Cala, La paradoja teocritea. Unidad y diversidad en los Idilios de Teócrito (pp. 11-109)

Rafael Jesús Gallé Cejudo, La frontera entre géneros: el Idilio XXI de Teócrito y la epístola poética (pp. 111-183)

Tomás Silva Sánchez, Hechos prosódicos y final de palabra en el hexámetro de Arato (pp. 185-254)

Manuel Sánchez Ortiz de Landaluce, Orfeo en las Argonáuticas órficas: su música y su voz. Estudio de contenido y léxico (pp. 255-321).

Notes

1. Qui l’influenza degli studi di M. Fantuzzi è chiara e apertamente dichiarata (pp. 27-28).

2. La miglior dimostrazione di tutto questo, a mio parere definitiva, l’ha fornita M. Fantuzzi, Variazioni sull’esametro in Teocrito, in M. F. – R. Pretagostini (edd.), Struttura e storia dell’esametro greco, I, Roma 1995, 221-264; Montes Cala espone le sue obiezioni a p. 51 n. 89, cfr. anche p. 48 n. 83.

3. Pp. 115 ss., 142; ciò non si può affatto escludere, anche se personalmente mi dichiaro un po’ più scettico. Alla bibliografia citata nella n. 8 si aggiunga ora l’edizione commentata di L. Belloni, [Teocrito]. I pescatori, Como 2004, sulla cronologia in particolare pp. 23-27.

4. Debitamente citata dallo studioso, p. 113 n. 2.

5. Altri paralleli con l’epistolografia indicati da Gallé Cejudo, come l’uso della sentenza iniziale o il desiderio di cambiar mestiere da parte di un personaggio, mi sembrano in realtà assai generici.

6. Solo un paio di rilievi: a p. 139 n. 61, quello che Kock stampava come Men. fr. 597 appartiene in realtà alla Comparatio Menandri et Philistionis, 2.24-26 Jaekel; a p. 142, per Leon. AP 6.4 non farei riferimento a Paton bensì a Gow e Page, HE 2283-90.

7. Anche se quest’ultimo dorizzava in σᾶμα con Wilamowitz. Conserva ora il testo anche Belloni, I pescatori cit., 79.

8. Così anche altri interpreti recenti, tra cui da ultimo Belloni, I pescatori cit., e più ampiamente in ‘Povertà’ e ‘ricchezza’ nel Corpus Theocriteum. In margine al testo degli Ἁλιεῖς, in L. Belloni – L. de Finis – G. Moretti (edd.), L’officina ellenistica. Poesia dotta e popolare in Grecia e a Roma, Trento 2003, 290-292.

9. Si tratta del noto articolo su Textual Problems in Theocritus’ Idyll XXI, “AC” 46, 1977, 495-522, ristampato in Scripta Minora Alexandrina I, Amsterdam 1980, 163-190.

10. Buona discussione in Belloni, I pescatori cit., 61-62.

11. Così Bergson ed altri, e ora anche Belloni; Gallavotti accoglie invece l’intervento di Ahrens.

12. Cfr. Sobre una particularidad del hexámetro de Opiano de Anazarbo, “ExcPhilol” 3, 1993, 115-125; Apuntes sobre retórica y versificación en Opiano de Apamea, “ExcPhilol” 9, 1999, 173-184; Apuntes sobre la primera ley de Meyer para el hexámetro, “ExcPhilol” 10-12, 2000-2002, 183-195; La elisión en el hexámetro de Calímaco. Actualización, “Habis” 34, 2003, 73-85.

13. J. Martin, Aratos. Phénomènes, ι Paris 1998.

14. Notiamo solo che al v. 1063 anche Martin nella II ed., come Kidd, torna alla lezione tramandata τεκμαίρεται (Silva, p. 196 n. 27; eliminare dunque la citazione del verso tra le infrazioni alla norma di Naeke a p. 201). Inoltre, il totale dei versi da prendere in considerazione sarà probabilmente non 1153 bensì 1152, dato che non solo il v. 613 (p. 190 n. 7), ma anche il v. 138 è considerato spurio dagli editori (come lo stesso Silva osserva a p. 225; non così i vv. 1138-1141, che sia Kidd sia Martin tendono, seppur con qualche incertezza, a conservare).

15. Ad esempio, riguardo allo iato nell’esametro arateo si può vedere adesso che quanto scrivevo in Studi su Euforione (Roma 2002), p. 83 e n. 98, basandomi sui dati di Kidd, è purtroppo errato: lo spoglio di Silva (pp. 204 ss.), per un totale di ben 255 iati su 1152 versi, mostra come la prassi di Arato sia sostanzialmente affine a quella di Euforione. In quest’ambito c’è ancora molto da fare: anche altri poeti ellenistici (non Apollonio, per cui si dispone dell’eccellente lavoro di Campbell) trarrebbero beneficio da un riesame completo che tenesse conto, come Campbell e Silva giustamente fanno per i rispettivi autori, della differenza tra gli iati ‘canonici’ e quelli più inusuali.

16. Vd. “MD” 35, 1995, 141.

17. Per la correptio epica in Apollonio avrei citato il fondamentale M. Campbell, Notes on Apollonius Rhodius, Argonautica II, “RPh” 99, 1973, 83-90; per la correptio Attica (p. 221 e n. 82) M. Fantuzzi, Ricerche su Apollonio Rodio. Diacronie della dizione epica, Roma 1988, 155-163, e S. R. Slings, Hermesianax and the Tattoo Elegy, “ZPE” 98, 1993, 36-37. Sullo status ambiguo delle appositive (p. 230 n. 112) credo di aver detto qualcosa di utile in Le norme del secondo piede dell’esametro nei poeti ellenistici e il comportamento della ‘parola metrica’, “MD” 35, 1995, 135-164.

18. A p. 262 e n. 13 credo che egli abbia pienamente ragione a schierarsi con Vian nel riferire il v. 7 νῦν γάρ σοι, λυροεργέ, φίλον μέλος ἀείδοντι a Museo, e non ad Apollo come ritiene J. C. Olmeda. Aggiungerei che la discordanza esegetica non è forse casuale. Dopo i vv. 1-6, in cui Orfeo invocava appunto Apollo, chiunque sarebbe effettivamente portato a credere che il Du-Stil cletico prosegua al v. 7: solo in seguito, e progressivamente, il lettore si rende conto che il personaggio cui la voce narrante si rivolge non è il dio, bensì il suo discepolo Museo. Probabilmente l’autore del poema era convinto di aver creato una ricercatezza di stampo alessandrino.