BMCR 2006.11.26

P. Papinius Statius. Thebais. Kommentar zu Buch 4, 1-344. Altertumswissenschaftliches Kolloquium 14

, P. Papinius Statius, Thebais : Kommentar zu Buch 4, 1-344. Altertumswissenschaftliches Kolloquium, Bd. 14. Stuttgart: F. Steiner, 2005. 181 pages ; 24 cm.. ISBN 3515086838. €34.00 (pb).

Ci sono libri che già con il solo titolo, che identifica un tema la cui opportunità o il cui interesse è immediatamente evidente, si conquistano la benevola attenzione del lettore. È il caso di questo volume, che meritoriamente si propone di colmare (almeno in parte, per un’ampia sezione ben circoscritta) una delle lacune più gravi negli studi di poesia latina, e cioè di fornire un moderno commento scientifico al IV libro della Tebaide di Stazio. Suoi modelli dichiarati (10) sono due fra i lavori più recenti, e più apprezzati dai lettori di Stazio, in questo campo, e cioè i commenti di M. Dewar al nono libro (Oxford 1991) e di J.J.L. Smolenaars al settimo (Leiden 1994). Maggiore risulta quindi la delusione quando si verifica la qualità del lavoro e si constata che esso risulta assai inferiore ai suoi propositi e alle aspettative del lettore.

Il lavoro, che si presenta come versione rielaborata di una dissertazione discussa all’università di Jena nel 1999, è costituito da tre sezioni: una Einleitung (11-53), cui segue testo latino e traduzione tedesca (54-69), e infine il commento (70-171). Da ultimo una bibliografia (172-81), dove oltre al sistema non sempre perspicuo dei rimandi (non avrebbe un compito facile, ad es., il lettore che a 105, v. 88, non sapesse già a quale lavoro preciso si rinvia con “Brinkgreve”), stupiscono sia le assenze che le presenze: che i lavori successivi al 2000 siano quasi del tutto ignorati (come l’A. prudentemente segnala: 7) sarebbe in sé una pecca del tutto trascurabile, se non fosse che ad essere ignorati sono interi settori degli studi di poesia latina e di critica letteraria in genere degli ultimi decenni (stupisce vedere, ad es. su fenomeni di lingua e stile, dove disponiamo di ricerche recenti e metodologicamente aggiornate, che si rimanda a bibliografia molto antiquata, in vari casi a lavori ottocenteschi: cfr. ad es. 92 v. 52, sulle etimologie nella poesia ellenistica; 108 v. 99 sulle interiezioni; 162 vv. 293 s. sui kakemphata; 168 v. 320, dove sulle ripetizioni non si fa menzione di J. Wills, Repetition in Latin poetry, Oxford 1996, né di altri lavori recenti, ma si rinvia a un articolo di quasi un secolo fa). Fra i titoli elencati figurano sì anche alcuni lavori importanti e rappresentativi dei nuovi indirizzi della ricerca, ma molto spesso la loro presenza non ha un riscontro effettivo nel lavoro concreto di analisi del testo, e risulta puramente accessoria.

L’Introduzione, dedicata all’analisi degli aspetti principali di questa sezione testuale, costruita sul catalogo degli eroi argivi in marcia per Tebe, è forse la parte migliore del lavoro. Dopo una prima sezione dedicata alla rassegna degli studi staziani sul catalogo, segue una minuziosa (fin troppo: 18-26) analisi della sua struttura e un esame delle caratteristiche formali di questa struttura testuale nella tradizione epica da Omero a Lucano e agli altri epici flavi; poi un’analisi di due importanti excursus interni al catalogo e alcune pagine su motivi e simboli che collegano intimamente questa sezione del libro al complesso del poema e al suo senso generale. Una buona sezione è quella finale su lingua e stile (42-50), dove S. lamenta l’inadeguatezza e la genericità di un fortunato concetto critico come quello di ‘manierismo’, e avanza una serie di efficaci osservazioni sulle forzature che Stazio opera su strutture linguistiche consolidate, e logorate dall’uso nella lingua poetica, come le metonimie, per mostrare la necessità di scavare nei dettagli della lingua al fine di cogliere la natura dell’originalità staziana; e come anche i problemi critico-testuali non possano essere affrontati se non in un quadro di interpretazione globale del testo di Stazio.

A queste promettenti premesse non tiene però fede il commento stesso, che come vedremo proprio in questo campo risulterà più deludente. Il meglio che esso offre, cioè il terreno sul quale si sente che l’A. si muove più a suo agio, è nell’analisi dei Realien, in cui S. mostra accuratezza e buona informazione. Buone sono anche, in genere, le discussioni di questioni critico-testuali: l’edizione di riferimento è quella di Hill 1996, da cui S. si distacca in rari casi (54), motivando in maniera solitamente persuasiva le sue scelte (ad es. quella su miseris di 4, contro miseri di Hill), così come ha buon gioco nel respingere varie proposte di emendamento immotivate o non plausibili (ad es. al v. 175).

Decisamente più carente invece risulta il lavoro di analisi specificamente letteraria, in cui sembra mancare proprio quell’attenzione ai livelli della lingua che S. dichiara necessari. Ad es. l’immagine di 254 s. ( quas non ille duces nemorum fluviisque dicata / numina, quas magno non abstulit igne Napaeas?) fa apparire il fascino erotico di Partenopeo sulle ninfe come un incendio della natura, con cui le ninfe si identificano, ma la nota di S. oscura del tutto l’effetto (“der instrumentale Ablativ igne (‘mit Feuer’) ersetzt ein Adverb zu abstulit; noch genauere wäre ‘ad ignem’, denn gemeint ist, dass Parthenopaeus die Nymphen einreisst”); esattamente come l’ardore di guerra che a 296 s. ( Aepytios idem ardor agros Psophidaque celsam / vastat et Herculeo vulgatos robore montes) ‘infiamma’ l’Arcadia; ma è appunto questa imagery che sembra passare del tutto inosservata.

I rimandi ai modelli , anche quando sono pertinenti, sono per lo più asciutti e sbrigativi, e non approfondiscono adeguatamente le relazioni intertestuali. Vediamone un esempio. A 133 s. viene descritta la nox Danai com’è rappresentata sullo scudo: sontes Furiarum lampade nigra / quinquaginta ardent thalami : l’A. si limita a un secco rimando: “Vgl. Verg. Aen. 2,503 über den Mord an den Kindern des Priamos”. Eppure sarebbe stata opportuna un po’ più di attenzione al testo virgiliano ( quinquaginta illi thalami, spes tanta nepotum, / barbarico postes auro spoliisque superbi / procubuere; tenent Danai qua deficit ignis), dove si poteva cogliere il vistoso segnale ( illi) di un richiamo al modello omerico (cfr. G.B. Conte, Virgilio. L’epica del sentimento, Torino 2002, 96 s.) dei cinquanta talami dei figli di Priamo, oltre forse al nesso fra i Danai, discendenti di “quel” Danao, e il fuoco (nonché l’oro);1 sulla linea che Virgilio aveva tracciato, marcando la sua continuità con Omero, si colloca ora Stazio, che si propone implicitamente come il successore di questa tradizione. Ma anche la presenza, appena menzionata (120), di quello stesso soggetto sul balteo di Pallante ( Aen. 10,496 ss.), e la sua fortuna in analoghi contesti ecfrastici (per la notoria presenza di quel mito nel portico del tempio di Apollo sul Palatino), potevano offrire l’occasione per un’analisi comparata sul piano della tecnica narrativa. A questo proposito, ad es., sarebbe stata utile a 135 qualche osservazione in più su inspicit enses, che sarà sì tecnico per il “passare in rassegna” le armi, ma qui ha anche, nel linguaggio figurativo, una evidente funzione di segnale, per il lettore-spettatore, dell’ordine di morte che Danao impartisce alle figlie. Così come si sarebbe desiderato un riferimento al legame specifico di quel mito con Argo (dove l’eccidio si era svolto) e alla sua funzione in chiave ideologica in relazione al tema della guerra civile.

Quel che sarebbe servito, a questo scopo, era una visione senza confini del panorama letterario, certamente più ampia dell’orizzonte piuttosto angusto in cui si muove S.: al di là del rapporto con Omero (specialmente il catalogo del secondo dell’ Iliade, con cui i confronti sono molto puntuali) e con la tradizione epica latina, manca un’attenzione al dialogo che l’epos di Stazio intrattiene con altri generi letterari e con un orizzonte ideologico più vario e complesso, più ‘moderno’ e articolato. È evidente, ad es., che un tema come il rifiuto degli ornamenti da parte della donna che soffre per l’amato lontano in guerra ha dei precedenti vistosi nella tradizione elegiaca, dall’Aretusa properziana (4,3,51 s.) alla Saffo delle Heroides (15,73-76). E non aiuta certo definire genericamente “topisch” un tema o un motivo, senza interrogarsi sui generi o i testi in cui esso compare, o sui personaggi coinvolti: è il caso (29 s.) del “Verfolgen des Schiffs mit den Augen”, dove un generico rinvio a Catull. 64,126 s. oscura il fatto che gli occhi siano quelli di Arianna e la nave quella di Teseo, e dunque che bisogna guardare alla tradizione della poesia erotica (e ai molti addii fra amanti nelle Heroides, come una parola-chiave quale relicti al v. 28 poteva suggerire). La stessa scena di addio, ad es., offre un esempio straordinario di ‘linguaggio dei corpi’ che meritava attenzione: in questa prospettiva, che in haeret amica manus (v. 26) il senso colto nel sostantivo sia solo quello di “Schar”, e non anche quello più preciso e corporeo di “mano” (attivato da un contesto di collo… bracchia… oculos), che indugia appunto dietro la spinta degli affetti, impoverisce irrimediabilmente la ricchezza espressiva del testo di Stazio.

Una lacuna seria del commento è l’ignoranza degli strumenti di analisi della tecnica narrativa, come mostrano alcuni confusi riferimenti al concetto di ‘tempo’: ai vv. 48 e 126 si allude all’idea di narratore onnisciente (rinviando a una dissertazione del 1891-92 sugli anacronismi nell’epica di Stazio), e a 107 con il criptico ” adhuc innerhalb eines Mythos” forse si fa riferimento allo scarto fra tempo narrativo e tempo narrato, ma appunto sia i concetti sia le categorie critiche sono piuttosto oscuri. Un caso vistoso di analisi tutta in superficie, senza alcuna attenzione agli effetti di voce e di punti di vista, è nella scena di addio fra Argia e Polinice in partenza per la guerra. Al v. 92 ( haec mentem oculosque reducit / coniugis et dulces avertit pectore Thebas) è evidente che dulces è la spia di una focalizzazione del testo su Polinice, diviso fra il desiderio della patria Tebe e il rimpianto degli affetti che lascia lì ad Argo (una condizione in qualche modo parallela, e insieme rovesciata, rispetto a quella famosa dell’Enea virgiliano quando, dopo il monito di Mercurio, ardet abire fuga dulcisque relinquere terras, Aen. 4,281 s.); e che non serve raccogliere qualche parallelo a caso, senza nessun riguardo alla pertinenza dei rimandi, di ” dulcis in Verbindung mit der Heimat”. Quel che serve invece è cogliere la tensione fra il destino eroico del personaggio e il richiamo degli affetti privati, che ha un nitido parallelo nell’addio fra Deidamia (che lo guarda allontanarsi turre procul summa) e Achille in partenza per Troia che si volta a guardarla ( ille quoque obliquos dilecta ad moenia vultus / declinat viduamque domum gemitusque relictae / cogitat: occultus sub corde renascitur ardor / datque locum virtus, Ach. 2,27-30); è al modello della relicta, appunto (cioè alla tradizione erotica), che bisogna guardare. Ma a questo conflitto di modelli etico-culturali (evidentemente importante anche per l’interpretazione di Stazio e del suo sistema ideologico) non si fa qui il minimo accenno.2

Il fatto è che S. ha un’idea monodimensionale della lingua: il suo problema è capire “che cosa il testo significa” a un livello puramente denotativo; e dunque, nel caso specifico, quel che conta è vedere se è attestato qualche esempio di dulcis con nomi di città, o con l’idea della patria, indipendentemente dalla voce di chi parla e dal contesto specifico.3 Manca insomma un’attenzione alle pieghe della lingua e alle tensioni dello stile (che spesso sono anche tensioni di registri espressivi) come spie di frizioni culturali, e quindi alla ricchezza espressiva di un testo capace di comunicare attraverso molti canali. S. ignora queste potenzialità e non si spinge al di là del rilevare una generica “Ambivalenz”, un concetto evidentemente troppo vago e sfuggente per un poeta e in particolare per uno come Stazio, la cui dizione condensa un dialogo con l’intera tradizione letteraria, e richiede quindi un orecchio particolarmente attento a cogliervi echi e inflessioni di voci poetiche anche non attese o prevedibili, o di specifici campi semantici. Ad es., la rappresentazione di Capaneo come un Gigante, suggerita dall’immagine figurata di 176 (il gigante-emblema che si protende dalla ‘rocca’ dell’elmo) e proseguita dall’attribuzione di armi adeguate al carattere ‘gigantesco’ del personaggio: rivitalizzando una serie di metonimie consolidate dalla tradizione epica, Stazio gli assegna una lancia- cupressus e uno scudo non solo ‘vivente’ (dove cioè l’idra tuttora viva e in movimento lo assimila a un Ercole ancora impegnato nella lotta) ma la cui definizione di indomitis… erepta iuvencis / terga (166 s.) visualizza lo scontro primordiale di un Gigante che afferra e smembra buoi selvatici (un’immagine che potenzia e arricchisce di senso il verso-modello immediato di Virgilio, Aen. 11,679) .4 Il richiamo a un uso metonimico non dovrebbe cioè oscurare, nel commento, l’originalità e la potenza espressiva di una dizione poetica fondata sì sulla tradizione, ma capace di superarla e rinnovarla traendone effetti straordinari.

Opportuna sarebbe stata anche un’attenzione specifica ai gesti simbolici: quando ad es. Amfiarao, che vede il futuro funesto, esita a prendere le armi, e Atropo lo spinge a impugnarle ( ipsa manu cunctanti iniecerat arma, 189), andrebbe segnalato il parallelo, nell’eccidio di Lemno, di un’altra figura furiale, la madre che (sotto l’incitazione di Polisso) spinge la riluttante Licaste a colpire il fratello Cidimo ( impellitque minis atque ingerit ensem, 5,230).5 E a proposito di simboli (cui pure è dedicata una sezione dell’introduzione, 39-42), ci si sarebbe atteso, nella scena dell’addio, qualcosa di più su un’immagine come quella di 20 s. galeis iuvat oscula clausis / inserere amplexuque truces deducere conos, dove il doppio contrasto baci-elmi e abbracci-cimieri riassume il conflitto fra il mondo delle tenerezze affettive e quello della guerra con le sue crudezze (chiaro qui il richiamo alla scena archetipo di Iliade 6,466-73, dove Ettore si toglie l’elmo, che col suo cimiero ha spaventato il piccolo Astianatte, prima di prenderlo in braccio).6

Altrettanto inadeguata è l’attenzione agli aspetti linguistico-stilistici del testo, come attestano note quale quella a 114 s. non ille minis Polynicis et ira /inferior, dove si osserva che “die Haüfung des i-Vokals klingt aggressiv” e si elencano un paio di “i-Allitterationen” da Orazio (dove peraltro di allitterazione propriamente non si tratta: Carm. 1,2,1 Iam satis terris nivis atque dirae) e Virgilio, passi per la cui selezione non si vede alcuna ragione particolare. Anche le osservazioni in fatto di metrica sono per lo più puramente descrittive, oltre che imprecise. Così, a 5 s. si segnala un verso spondiaco, e ci viene detto che in questo libro sono concentrati i più numerosi esempi di questo fenomeno: ma al di là del fatto che i cinque casi segnalati sono in realtà tre (perché spondiaci non sono né 50 né 178), e quindi la presunta concentrazione viene meno, non si tenta di trovarne una qualche motivazione nel contesto (a 298 si poteva almeno osservare che lo spondiaco marca, come spesso altrove, la chiusura di una sezione); così come accade per la dieresi bucolica a 87 n. 41.

Il lettore di questo commento si ritrova spesso a sperimentare la frustrazione di Atalanta (341): plura cupit, ma la fretta di S. è come quella di Partenopeo. E alla fine si chiude il volume con l’impressione di un’occasione mancata, o colta solo in minima parte;7 il lavoro di S. potrà essere utile ad altri studiosi come strumento preliminare, ma il commento al quarto libro della Tebaide resta ancora tutto da scrivere.

Notes

1. Il che non esclude che possa agire su Stazio, come suggerito da S., anche il modello dei ‘talami ardenti’ di Medea in Val. Fl. 1,226.

2. Un’altra esegesi frettolosa a 29 s., fugientia carbasa visú dulce sequi, patriosque dolent crebrescere ventos, dove S. si rende conto della particolarità di dulcis, ma lo definisce “hyperbolisch für gratum“, e dove dolent, che comprime il senso di quel conflitto, viene semplicisticamente glossato “weil die Abfahrt umso schneller geschieht”.

3. Così, anche molti dei paralleli pertinenti, visti fuori contesto, rimangono segnalazioni inerti: serve a poco, ad es., dire a 271 che praevertere ricorre già nel settimo dell’ Eneide se non si aggiunge che si tratta dei versi su Camilla, un modello primario di Partenopeo. Analogamente, non è irrilevante che il precedente virgiliano di crebresco (v. 30) sia nell’addio ‘rovesciato’ dei Troiani di Aen. 3,530.

4. All’immaginario da Gigantomachia sembra rinviare anche 180 summis ingestum montibus Aepy (dire che “der Vers ist aus Hom. Il. 2,592 übertragen” è quanto meno riduttivo).

5. Ma il gesto richiama anche quello della stessa Tisifone a 7,467 s. fratrem huic, fratrem ingerit illi, / aut utrique patrem.

6. Lo stesso tema è implicito anche a 204 s.

7. Anche la stampa è tutt’altro che impeccabile: fra i numerosi refusi segnalo ad es. 61 v. 304 aspera (corr. asperat); 74 flavem ( flavam); 113 v. 120 è omesso Pliadas; 119 aera ( aerea); 122 pulvus ( pulvis); 150 pisaeas que ( Pisaeasque); 157 v. 275 lunaeque ( lunaque); 158 Arcade: ( Arcade); 159 Rosenmayer (Rosenmeyer); 165 trepidosa ( trepidos a); 179 argentae ( argenteae), etc.