Daddy, ti chiamavamo
“Daddy,” ti chiamavamo. “Daddy,” quando ci parlavamo per la via, assumendo facce americane, plasmando la nostra vita nel gergo patersoniano.
A casa, parlavamo un dialetto del Sud Italia frammisto con l’inglese e ti chiamavamo Papa
ma fuor di nuovo, diventavi Daddy e parlavamo di te ai nostri amici come “mio padre” immaginando che parlavamo di quel personaggio della TV di Father Knows Best con quel suo vestito scuro da passeggio, tornando a casa con la borsa, ritirandosi nel suo gabinetto dalle pareti di legno, gran salotto e sal da pranzo, la moglie con il grembiulin di trine salutandolo alla porta con un bacio. Tanto spazio
e silenzio in quella casa. Noi abitavamo in una stanza grande– salotto, sal da pranzo, cucina, camera da letto, tutti in una, dominati dal tavolin da pranzo di quercia grigio intorno a cui ci sedevamo, a parlare e a ridere, ascoltando le tue storie, gli argomenti politici coi tuoi amici.
Papa, come risplendevi nella luce della compagnia,
felice quando gli altri immigranti venivan da te a chiederti aiuto per tasse o carte legali.
Era solo fuor di quel circol di splendore ch’ io ti rinnegavo, negavo le tue lunghe ore di lavoro come guardiano notturno alla Royal Machine Shop. Una notte, tornando da un ballo il mio borghese amichetto americano mi baciò al semaforo; io guardai all’insù ed incontrai i tuoi occhi mentre tu eri fermo all’angol della via prossimo alla Royal Machine. Era quasi mezzanotte. Gennaio. Freddo e ventoso. Tu aspettavi l’autobus, i lampioni illuminavano il tuo viso. Io feci finta non vederti, lasciai ripartir il mio amico, lasciandoti all’angolo deserto ad aspettare l’autobus che t’avrebbe riportato a casa. Tu non ne hai mai parlato, non hai mai detto che sapevi quante volte avevo mentito su quel che facevi per guadagnar la vita o che mi vergognavo ti vedesse il mio amichetto, che scoprisse il tuo lavoro di secondo turno, che sentisse il tuo mal parlato inglese.
Oggi, ricordando quel momento, illuminato ancor nella mia mente dalla luce grigia del lampione della via, penso a mio figlio alla distanza tra di noi, più che di miglia. Papa, setaiolo, custode, guardiano notturno, immigrante italiano, onoro gli anni che hai passati in lavor meschini sdrucciolando giù pei gradini quando il corpo cominciava a mancarti
mentre la mente tua, sì lesta e perspicace, bramava evadere, onoro le volte che t’alzavi dopo aver dormito solo un’ora, per portarmi a scuola o venir a prendermi, i caldi panini del forno che mi compravi di ritorno dal tuo turno notturno.
Le lettere che scrivevi agli editori dei giornali locali.
Papa, setaiolo, custode guardiano notturno, immigrante italiano, miglior di qualsiasi padre del Father Knows Best, blando come il riso bianco, con torchio per uva in cantina con giornali che raccoglievi da mucchi di spazzatura per ridurli in denaro che depositavi per noi, con trappole per sorci, con le tue mani callose e screpolate, coi tuoi denti ingialliti.
Papa, trascinando quella tua gamba morta per le fabbriche di Paterson, ora son fuor di casa, clamando il nome tuo.
Maria Mazziotti Gillan Translated by Maria Elisa Ciavarelli
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